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Pensieri brevi


Non sono mai stato un convinto sostenitore della chiave di lettura cristiana dell'esistenza (in verità delle religioni in generale). Preferisco sperimentare e vivere una spiritualità maggiormente individuale, più aperta al dubbio, al rinnovamento e alla ricerca costante ed esperieziale.
Ripenso spesso a una bellissima frase di Khalil Gibran: "Se volete conoscere Dio, non siate solutori di enigmi. Piuttosto guardatevi intorno, e lo vedrete giocare con i vostri bambini".
Ma è pur vero, come afferma Galimberti, che "le grandi domande sull'esistenza nascono in presenza del dolore, della malattia, della morte e difficilmente in presenza della felicità che tutti rincorriamo".
Il limite di alcune grandi religioni sembrerebbe però essere la predisposizione ad enfatizzare la sofferenza, fino a portarla quasi a diventare una merce di scambio con la "vita eterna".
Si è arrivati alla negazione della felicità considerandola addirittura un ostacolo all'ottenimento della dimensione celeste. Per questo credo che le religioni, nel tempo, abbiamo gradualmente perso  credibilità, poiché ragionano, in un certo senso, contro la legge naturale dell'equilibrio degli opposti. Non a caso tra i vari simboli spirituali quello che per me è di maggiore ispirazione è il simbolo del Tao, il cui significato è ben ricordato da Tiziano Terzani nella sua ultima intervista...

Gianluca Patti


In molte circostanze la memoria eidetica può rivelarsi, nell'autismo, veramente sorprendente. Mio figlio è capace di ricordare nel tempo dettagli dì ciò che osserva anche per pochi istanti. Per questo è fondamentale indirizzare l'attività di apprendimento e la didattica verso strategie e soluzioni preferibilmente schematiche e rappresentative, piuttosto che insistere forzatamente sull'elaborazione cognitiva di concetti teorici in forma esclusivamente testuale, cosa che purtroppo molti docenti di sostegno (non quelli attuali di mio figlio che, per fortuna, sono eccellenti) si ostinano a fare.
Fanno sorridere, poi, le motivazioni mosse a giustificazione di questa infelice perseveranza, in particolare quando si afferma che il bambino va trattato allo stesso modo degli altri, per una scelta etica, secondo loro, orientata a garantire una condizione di eguaglianza. Vorrei ricordare a questi "professionisti" dell'insegnamento che eguaglianza non vuol dire perseguire l'emulazione delle risposte sulla base di una identica attività di stimolazione cognitiva, ma offrire a tutti le medesime opportunità in linea con la proprie caratteristiche individuali. Significa riconoscere all'arte dell'educazione una dinamica del divenire  in grado di costruire, di volta in volta, un chiaro quadro espressivo della personalità di ogni singolo studente.
Pensate, poi, in termini di inclusione, se imparassimo ad applicare queste potenzialità anche nel sociale, soprattutto in ambito lavorativo...

Gianluca Patti

Wikipedia definisce la "zona di comfort" "uno stato psicologico in cui un individuo percepisce tutto come familiare e si sente a suo agio, sperimentando bassi livelli di ansia e stress".
In realtà è esattamente l'opposto e, di fatto, è il nome stesso a rivelare un immenso paradosso. Non c'è assolutamente nulla di familiare in una zona di "comfort", né un qualsiasi ridimensionamento di emozioni disturbanti come ansia e stress; è un perenne stato di disagio. Esiste solo la paura, il timore di evadere per cercare nuovi e più valorizzanti orizzonti, il terrore di dover ricominciare, di mettere te stesso in discussione, abbandonando finalmente una realtà non edificante, dove sono gli altri a metterti costantemente in discussione.
Eppure, una volta che hai trovato il coraggio di saltare, la paura cede immediatamente il passo allo stupore. Ti accorgi di quanta vita esiste al di là del confine morto, oltre la linea del tramonto.
Non ci sono validi motivi per rinunciare a oltrepassare gli argini del consueto, perché non è mai troppo tardi per ritrovare sé stessi...

Gianluca Patti




Esistono delle espressioni tecnico/scientifiche veramente infelici: autismo a basso o ad alto "funzionamento".
Mio figlio "funziona" poco? "Funziona" sufficientemente? In base a quali parametri? Neurologici? Legati alle autonomie? Al linguaggio? Al QI? Al grado di partecipazione sociale? E soprattutto, in relazione a quale contesto? Alla "fantastica" e "funzionale" società di cui facciamo parte?
E qual è la scala di misura del "funzionamento" di un essere sociale, o più in generale di un essere umano in tutta la sua complessità genetico/ambientale? E di qualcuno che ha un differente o "atipico" modo di percepire e di osservare il mondo?
Preferisco affermare che mio figlio è un individuo ad alta consapevolezza (perfettamente centrato nella propria libertà di essere).

Gianluca Patti
04/06/2024

Credo che le parole siano profondamente importanti e assolutamente determinati. Danno forma e significato alle cose, definiscono immagini, schemi e strutture mentali, e di conseguenza generano valori e dinamiche culturali capaci di radicare tenacemente nel tempo. Le parole sono materia concreta di anticipazione dei fatti e delle azioni, perché hanno il potere di costruire il senso dell'operare e del procedere, secondo proiezioni mentali ben precise che stabiliscono il volto e la sostanza della società. Troppo spesso mi è capitato di leggere titoli di libri concepiti utilizzando espressioni tipo "autismo guida all'uso", "manuale per operatori",  "istruzioni per..." ecc..., per non parlare di termini come "livello", "funzionamento", "disturbo" e dei soliti acronimi come "ASD", "ADHD" ecc...
Proprio recentemente ne ho fatto materia di riflessione in un articolo del mio blog (inter-essere). Più volte, poi, ho anche ragionato sul carattere eticamente discutibile del termine "accettazione".
Senza voler polemizzare sulla esattezza o meno della natura scientifica e meramente "tecnicistica" di alcune terminologie, appare abbastanza evidente che oramai si sia innescato un processo di "disumanizzazione" della disabilità, dando sostanza all'idea che l'autismo sia una sorta di bug da correggere, che una persona con autismo sia un "dispositivo" difettoso da riparare o da riprogrammare, o al massimo da accettare, ispirati da un egocentrico e sensazionalistico pietismo (che altro non è che una sottile forma di abilismo).
C'è tutta una dimensione umana, percettiva, emozionale che in qualche modo non viene sufficientemente considerata, che passa in secondo piano. Una dimensione che dà senso a una singolarità che non va "aggiustata", ma va solo compresa e tutelata, va nutrita e valorizzata in considerazione delle proprie particolarità; un modo di essere e di percepire il mondo che appare "disfunzionale rispetto ai canoni sociali sinteticamente precostituiti della "normalità", ma che nulla ha di non funzionale in termini esistenziali e su un piano pienamente celebrativo della vita. Una narrazione dell'alterità che identifica la possibilità di essere differenti non come una alterazione della normalità, ma come una totale negazione dell'idea di normalità intesa come processo di omologazione. Ripenso alle parole di Paolo Crepet: "La normalizzazione assomiglia alla neutralizzazione". Non c'è niente di interessante nella normalità" "Che voi possiate essere quello che sentite di essere, senza nessuna definizione, senza nessuna diagnosi, senza nessun commento, senza nessun giudizio. Siete quello che siete. Strani? Impossibile non esserlo. È la normalità la più brutta invenzione dell'umanità. Essere normali è una roba ingiuriosa. Volete esserlo? Vi rassicura? Visto da vicino nessuno è normale. E allora godetevi la vostra diversità, siete così belli, perchè volete complicarvi la vita con la normalità? Alla fine vuol dire augurare la libertà".
"Augurare la libertà"...la libertà di essere...
Molti dei succitati termini, oggi di utilizzo sempre più comune, sono sicuro che, per certi versi, appariranno anche pratici da un punto di vista operativo, ma si torna sempre alla stessa essenziale dicotomia tra il concetto di "curare" e quello di "prendersi cura", che personalmente amo tradurre nella differenza sostanziale che esiste tra l'idea di "aggiustare"e quella di comprendere.
Forse potrà sembrare cosa superflua rispetto a tante battaglie politiche o "burocratiche" per i diritti, ma io credo che oggi la rivoluzione più urgente e determinante resti quella semantica. Se non si cambia il modo definire difficilmente si potrà cambiare il modo di capire e di pensare, e di conseguenza quello di agire e di operare.
Mi piace terminare questa breve riflessione, che apre la strada all'articolo in calce, con le parole della Dott.ssa Gabriella Tupini:

"Cosa vuol dire amare? Amare vuol dire capire; e per capire bisogna anzitutto cercare di capire. [...] Cercate di mettervi in contatto e di capire ciò di cui (gli altri n.d.r.) hanno bisogno. Non stabilite in via di principio che voi già sapete tutto di loro, perché non sapete niente. Però il desiderare di capirli è una forma d'amore". (Gabriella Tupini)


Noi, anime semplici e sinestetiche, che contestiamo l'involuzione delle convenzioni sociali, ingiustamente assolte da un dissacrante principio di inviolabile normalità dell'essere; noi che riconosciamo la perfezione dell'equilibrio universale nella compartecipazione esistenziale di ogni possibile diversità; noi, trasparenti e muti, ma silenziosamente estatici e mai infelici, non identifichiamo nelle parole il senso del nostro vissuto, ma ci affidiamo a purissimi silenzi e ricercata serenità, dove ogni suono può diventare colore, ogni colore mutare in voce ed ogni visione condurre lo sguardo verso molteplici possibilità percettive tra le infinite prospettive del vivere e dell'osservare.
L'autismo non ha confini, ma orizzonti infiniti; e non ha pareti, se non quelle che l'ignoranza della società sceglie di edificare. (Gianluca Patti)
Grafica e web design: Gianluca Patti

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