04/06/2024
Credo che le parole siano profondamente importanti e assolutamente determinati. Danno forma e significato alle cose, definiscono immagini, schemi e strutture mentali, e di conseguenza generano valori e dinamiche culturali capaci di radicare tenacemente nel tempo. Le parole sono materia concreta di anticipazione dei fatti e delle azioni, perché hanno il potere di costruire il senso dell'operare e del procedere, secondo proiezioni mentali ben precise che stabiliscono il volto e la sostanza della società. Troppo spesso mi è capitato di leggere titoli di libri concepiti utilizzando espressioni tipo "autismo guida all'uso", "manuale per operatori", "istruzioni per..." ecc..., per non parlare di termini come "livello", "funzionamento", "disturbo" e dei soliti acronimi come "ASD", "ADHD" ecc...
Proprio recentemente ne ho fatto materia di riflessione in un articolo del mio blog (inter-essere). Più volte, poi, ho anche ragionato sul carattere eticamente discutibile del termine "accettazione".
Senza voler polemizzare sulla esattezza o meno della natura scientifica e meramente "tecnicistica" di alcune terminologie, appare abbastanza evidente che oramai si sia innescato un processo di "disumanizzazione" della disabilità, dando sostanza all'idea che l'autismo sia una sorta di bug da correggere, che una persona con autismo sia un "dispositivo" difettoso da riparare o da riprogrammare, o al massimo da accettare, ispirati da un egocentrico e sensazionalistico pietismo (che altro non è che una sottile forma di abilismo).
C'è tutta una dimensione umana, percettiva, emozionale che in qualche modo non viene sufficientemente considerata, che passa in secondo piano. Una dimensione che dà senso a una singolarità che non va "aggiustata", ma va solo compresa e tutelata, va nutrita e valorizzata in considerazione delle proprie particolarità; un modo di essere e di percepire il mondo che appare "disfunzionale rispetto ai canoni sociali sinteticamente precostituiti della "normalità", ma che nulla ha di non funzionale in termini esistenziali e su un piano pienamente celebrativo della vita. Una narrazione dell'alterità che identifica la possibilità di essere differenti non come una alterazione della normalità, ma come una totale negazione dell'idea di normalità intesa come processo di omologazione. Ripenso alle parole di Paolo Crepet: "La normalizzazione assomiglia alla neutralizzazione". Non c'è niente di interessante nella normalità" "Che voi possiate essere quello che sentite di essere, senza nessuna definizione, senza nessuna diagnosi, senza nessun commento, senza nessun giudizio. Siete quello che siete. Strani? Impossibile non esserlo. È la normalità la più brutta invenzione dell'umanità. Essere normali è una roba ingiuriosa. Volete esserlo? Vi rassicura? Visto da vicino nessuno è normale. E allora godetevi la vostra diversità, siete così belli, perchè volete complicarvi la vita con la normalità? Alla fine vuol dire augurare la libertà".
"Augurare la libertà"...la libertà di essere...
Molti dei succitati termini, oggi di utilizzo sempre più comune, sono sicuro che, per certi versi, appariranno anche pratici da un punto di vista operativo, ma si torna sempre alla stessa essenziale dicotomia tra il concetto di "curare" e quello di "prendersi cura", che personalmente amo tradurre nella differenza sostanziale che esiste tra l'idea di "aggiustare"e quella di comprendere.
Forse potrà sembrare cosa superflua rispetto a tante battaglie politiche o "burocratiche" per i diritti, ma io credo che oggi la rivoluzione più urgente e determinante resti quella semantica. Se non si cambia il modo definire difficilmente si potrà cambiare il modo di capire e di pensare, e di conseguenza quello di agire e di operare.
Mi piace terminare questa breve riflessione, che apre la strada all'articolo in calce, con le parole della Dott.ssa Gabriella Tupini:
"Cosa vuol dire amare? Amare vuol dire capire; e per capire bisogna anzitutto cercare di capire. [...] Cercate di mettervi in contatto e di capire ciò di cui (gli altri n.d.r.) hanno bisogno. Non stabilite in via di principio che voi già sapete tutto di loro, perché non sapete niente. Però il desiderare di capirli è una forma d'amore". (Gabriella Tupini)
